Buongiorno commensali. Oggi 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria, indetto per commemorare le vittime dell’Olocausto, delle leggi razziali e coloro che hanno messo a rischio la propria vita per proteggere i perseguitati ebrei, nonché tutti i deportati militari e politici italiani nella Germania nazista.
Si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.
Tra coloro che furono salvati c’era Primo Levi, chimico italiano deportato a Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, perché “cittadino italiano di razza ebraica”. Detenuto lì da due anni, prigioniero 174517, uno dei venti sopravvissuti dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo.
…se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è famigliare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.
Quando a dicembre ho stilato la lista dei classici da leggere nel #unclassicoperdodicimesi ho trovato giusto dedicare gennaio alla lettura del suo memoriale, “Se questo è un uomo”.
Vi parlerò quindi ora più nello specifico di questa opera autobiografica, scritta tra il dicembre 1945 ed il gennaio 1947. Nulla di quanto riportato è frutto di fantasia.
Nella prefazione veniamo informati dall’autore stesso del motivo per cui ha deciso di mettere per scritto quanto vissuto. La stesura del romanzo era dovuta all’urgenza morale di rendere partecipi più persone della spaventosa e disumana realtà della vita nel Lager e allo stesso tempo liberarsi interiormente di quanto lo ha visto testimone.
Non vi è quindi un ordine logico in quanto scritto, ma tutto è riportato in base alla necessità di ricordare.
Nel graphic novel “Sono figlia dell’Olocausto” di Bernice Eisenstein è citato un pensiero di Levi sul suo libro
una specie di protesi, una memoria esterna che si interpone tra il mio vivere di oggi e quello di allora.
Immaginavo di assistere a esecuzioni di massa, a scene raccapriccianti e sanguinose, quanto ci viene mostrato nei film. In realtà assistiamo a “fame”, “stanchezza”, “paura”, “dolore”.
I persecutori non avevano viso né nome. Erano lontani, invisibili, inaccessibili. I contatti diretti tra prigionieri e aguzzini erano ridotti al minimo. Solo durante gli ultimi giorni l’autore incrocerà un SS in fuga.
I veri “cattivi” erano prigionieri stessi ai quali era assegnato il compito di mantenere l’ordine, pena la soppressione.
…si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. Costui sarà sottratto alla legge comune, e diverrà intangibile; sarà perciò tanto più odioso e odiato, quanto maggior potere gli sarà stato concesso. Quando gli venga affidato il comando di un manipolo di sventurati, con diritto di vita o di morte su di essi, sarà crudele e tirannico, perché capirà che se non lo fosse abbastanza, un altro, giudicato più idoneo, subentrerebbe al suo posto.
Sono stati fatti diversi studi comportamentali su questa dinamica. Se voleste approfondire vi consiglio di leggere “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” di Philip Zimbardo.
Noto come l’ideatore dell’Esperimento carcerario di Stanford, racconta la storia di questo studio. A un gruppo di studenti furono attribuiti a caso i ruoli di “guardia” e “detenuto” in un ambiente carcerario simulato. Dopo una settimana lo studio fu interrotto perché quei normalissimi studenti si erano trasformati in guardie brutali e in detenuti emotivamente distrutti. Zimbardo descrive come certe dinamiche di gruppo possano trasformare in mostri uomini e donne perbene e ci permette di comprendere meglio fenomeni di estrema crudeltà, dalla disonestà delle multinazionali a come soldati americani prima degni di stima siano giunti a perpetrare torture su detenuti iracheni ad Abu Ghraib.
In “Se questo è un uomo” mancano del tutto toni esasperati, sentimentalismi e sfoghi di rancore, mentre condanna e ammonimento compaiono con naturalezza ed efficacia. Solo linguaggio pacato e sobrio.
Questo è dovuto al fatto che fare la vittima lamentevole non avrebbe reso obiettivo il resoconto. Solo così il testimone prepara il terreno per il giudice. I giudici siamo noi. Non che Primo Levi abbia perdonato i colpevoli, ma era disposto a farlo solo con chi si fosse ravveduto.
Una lettura assolutamente necessaria. Mi aspettavo di essere più coinvolta da quanto descritto, ma lo stile risulta freddo e distaccato. Comprendo la difficoltà nel rivivere mentalmente l’esperienza e per questo non mi fermerò alla prima impressione, ma approfondirò leggendo anche La Tregua, il resoconto del viaggio di ritorno da Auschwitz all’Italia.
Spero che quanto letto spinga anche voi a saperne di più, a informarvi, a porvi domande e sensibilizzarvi contro ogni tipo di violenza verso chi è reputato “diverso”.
Meditate che questo è stato