Salve lettori di Un libro sul menù!
Avrete sicuramente letto la recensione del romanzo “E da una lacrima…la felicità”.
Lo avete fatto vero? Se non lo avete ancora fatto andate a rimediare!!!
Con noi oggi l’autore Marco Posata, che ringrazio per essersi prestato a questa intervista.
- Parlaci di te scrittore e lettore. – Come scrittore non c’è tanto da dire, essendo esordiente. Pero posso assicurarti che scrivere fa parte di me praticamente da sempre, prima però mi sono sempre dedicato alle poesie. Come lettore invece posso dirti che sono un lettore atipico, vado a periodi sia come genere, che come quantità di libri letti (questo anche a seconda degli impegni. Magari c’è la settimane che leggo anche tre libri e magari mesi che ne leggo solo uno. Il genere come dicevo non ne ho uno preferito, ma se devo dirne uno prediligo l’avventura.
- Com’è nata la passione per la scrittura? – Come ti dicevo, scrivere è sempre stata una parte di me, per me scrivere non è uno sfogo come si possa pensare, ma spesso mi ritrovo, quasi preso da una forza interiore che mi porta a buttare parole sulle pagine che anche a me, prendono forma solamente alla fine quando vado a rileggerle.
- Quali sono i libri e gli autori che hanno influenzato il tuo stile? – Non mi sono ispirato quasi a nessuno, però ho voluto provare ad omaggiare Manzoni e Wilbur Smith, dedicandomi ad un primo capitolo totalmente descrittivo.
- Quando scrivi, per chi scrivi ? – Non scrivo particolarmente a qualcuno, scrivo per un lettore generico, a meno che si tratti di una poesia, specialmente se d’amore non posso che scriverla per mia moglie o per mia figlia.
- C’è un libro che avresti voluto scrivere tu e invidi a un un altro scrittore? – Non credo si possa invidiare un libro perché credo che in fondo per noi autori questi siano un po’ come figli, e sicuramente non si invidiano i figli altrui. Si amano i propri, nel bene e nel male.
- Hai un aneddoto sulla stesura o l’ideazione di “E da una lacrima…la felicità” ? -Posso dirvi che questo romanzo nonostante l’abbia scritto in 5 anni, è nato in una notte. Una mattina mi sono svegliato, ed era tutto li, nella mia mente, trame, luoghi, personaggi, tutto. Una frase però spiccava su tutte “E da una lacrima…la felicità” non come titolo però. Queste erano le parole con le quali dovevo chiudere il romanzo.
- Progetti futuri nel cassetto o in cantiere? – Progetti c’è ne sono diversi in cantiere, tra questi sicuramente il continuo di “E da una lacrima…la felicità”, che farà parte anche di un concorso scolastico nel quale uno studente vincerà la pubblicazione insieme a me. Dalla mia penna sta nascendo anche un altro romanzo. L’unica cosa che posso dirvi è questo: si apre con una donna che sale sul davanzale di una finestra. Se vi fa piacere vi lascio il primo capitolo…
E noi possiamo non accettare questa anteprima??? Grazie mille Marco e buona lettura a tutti voi.
“CAPITOLO I“
Chiudete gli occhi, scavate il vostro animo, mettetevi comodi e sistematevi nella parte più intima di voi, come a voler fare una seduta di psicologia al vostro io più profondo. Lasciatevi avvolgere da quelle vostre stesse mani in un abbraccio che sappia darvi davvero ciò di cui avete bisogno.
Ora che siete distesi, leggete. Anzi no, ascoltatemi e lasciate penetrare dolcemente le parole nel vostro corpo bagnandovi del loro più significato più intrinseco proprio come si bagna il petalo d’un anemone sotto le gocce della rugiada del mattino. E intense, proprio come il fiore del vento baciate le emozioni in ogni loro sfumatura, e in ogni colore vivendole nell’immensità della vita che si racchiude nella semplicità degli attimi della vita stessa.
Sono qui a scrivervi, a raccontarvi. Non sono una coscienza, ne uno di quelli che si diletta a dare consigli e ammonizioni. In realtà non so ben neanch’io il perché le parole che mi vorticano nella testa abbiano deciso di fuggire e andare a cercare riposo in quel che un tempo fu corteccia e ancor prima albero e seme prima di lui.
Monica salì su qual davanzale proprio come se stesse salendo i gradini di una scalinata. Il vuoto che ormai portava dentro superava di gran lunga il vuoto che aveva dinanzi. La distanza che la separavano dall’asfalto era di 5 piani. Niente. I 17 metri di vuoto parevano inesistenti. Nulli. Inesistenti come il suo sguardo che continuava a fissare i suoi piedi. Bianchi, estremamente sottili e bianchi. Continuava a scrutarli e ad osservarli come fossero quelli di un altra persona. Belli. Erano belli i suoi piedi. Lisci con una punta di smalto rosa carne. Scrutandoli si rese conto di avere un unghia incrinata. Quella visione la fece trasalire e nella sua statica immobilità spostò, seppur di pochi centimetri i passi all’indietro, quasi il suo corpo si rifiutasse di passare a miglior vita in maniera non impeccabile.
Non era mai stata una di quelle estremamente precisine, anzi. Spesso e volentieri per districarsi tra le sue cose ci si sarebbe dovuto affidare ad un radar o alla divina provvidenza. Il suo ordine lo si poteva difatti riconoscere dando uno sguardo sulla scrivania che giaceva dietro di lei. Distesi su quel piccolo piazzale di legno infatti giacevano un paio di smalti, di cui uno aperto e disteso morente sotto la luce di una lampada rossa ricurva rigorosamente accesa con una luce forte e gialla. E poi vestiti, un paio di t-shirt, un bracciale di quelli rigidi color argento e fogli, fogli con scritte vaghe, appunti e scarabocchi che in fondo avevano più senso delle parole stesse. Praticamente era una disordinata cronica. In quella stanza regnava un caos enorme, colossale. Colossale come il caos che padroneggiava nella sua vita.
NO.
Era disordinata, okay. Ma in quell’istante voleva essere davvero impeccabile, perfetta.
Incredibile.
Si apprestava a gettarsi dal quinto piano su di un massiccio asfalto duro almeno quanto la roccia alla velocità della luce e la sua testa si focalizzava sull’imperfezione di un unghia. No, non era incredibile. Era il suo corpo che probabilmente si giocava tutte le carte rimastegli a disposizione e andandosi ad appigliare alla scusa più subdola tentava di farla desistere.
Il silenzio di quell’istante le andava strisciando sulla pelle che al contatto dell’aria che tirava dalla finestra era diventata simile a quella di un oca.
Monica era una ragazza sulla trentina, capelli mori, ondulati, portati all’incirca una decina di centimetri sotto le spalle. Aveva un bel fisico, frutto di anni di palestra e corse mattutine.
Adorava correre. Probabilmente era una delle sue più grandi passioni.
La mattina prima di recarsi a lavoro spesso si alzava insieme al sole, e una volta indossate le scarpe da tennis e la tuta correva letteralmente al parco. Le piaceva vedere quel piccolo mondo svegliarsi davanti i suoi occhi. Quando arrivava lei, il parco era praticamente deserto, ma durante la sua corsa, questi come fosse una magia, si animava man mano che il giorno si svegliava e incominciava la sua giornata. Ah quanto l’adorava. Impazziva al profumo gelido e bagnato delle mattine d’inverno che prepotentemente entrava nelle sue narici provocandole un pizzico dolce e profondo. Ma la cosa che letteralmente, e incontrastatamente amava più di ogni altra cosa era assaporare il il gusto del sudore che scoperto dal vento andava a morire sulle sue labbra. In quelle gocce riusciva a captare tutta l’essenza della sua fatica.
Sorrise, al pensiero di quanto fosse strana quella sua perversa concezione di corsa. Forse con quel sorriso se ne rallegrò, o forse fu solo una delle maschere che ultimamente si era abituata a indossare e mostrare agli altri. Non lo sapeva neanche lei. Si sentiva frastornata, persa. Le emozioni, le delusioni, i problemi e i ricordi le stavano navigando senza senso nella sua mente. Le sentiva sbattere contro le tempie come l’enorme accozzaglia di immondizia che naviga in un oceano. Si, dentro di lei galleggiava un enorme pattume che le impediva di vedere ciò di cui la sua anima cristallina aveva davvero bisogno.
Si passò la lingua per inumidirsi le labbra, ma con stupore le trovò già bagnate del sudore freddo che si rese conto in quell’istante le aveva bagnato tutto il corpo.
Non faceva caldo, ne tanto meno aveva corso. Era la paura. Era il terrore che stava colorando il suo corpo. Si, okay, stava per suicidarsi, ma chi lo dice che quando uno sta per morire volontario non debba avere paura? Monica non ci aveva mai riflettuto al riguardo, ma si rese conto ben presto che le paure che possono attanagliarti in quell’istante possono essere le più disparate. Paura su cosa ci possa essere dopo. Certo, se uno è credente, dovrebbe esserci il paradiso e l’inferno per chi è cattolico o la reincarnazione o qualche altro mondo a secondo del Dio al quale si crede. Ma se non fosse così? E se si ricominciasse da capo? E se invece non ci fosse nulla? Oppure….Monica non sapeva che pensare. Prestò però la paura dell’ignoto svanì, lasciando spazio alla paura del dolore.
Quanto male potrebbe fare l’impatto con il suolo? Non lo sapeva di certo. E se poi non sarebbe morta? Impossibile. Cercò di conficcarsi questa risposta nel cervello piantandola con forza in tutti i suoi neuroni, che presi dal panico in quell’istante lasciavano i suoi pensieri lievemente offuscati.
Impossibile, impossibile, impossibile.
Però ogni tanto al telegiornale l’aveva sentito. Erano più d’uno i casi nel quale nonostante una caduta da una simile altezza le vittime erano rimaste paralizzate, in coma o con danni permanenti. Doveva rischiare, oppure no. L’unica cosa che voleva, e ne era certa, era la tranquillità, la pace, anzi la pace eterna. Voleva smettere di soffrire. Sentiva il suo cuore e la sua anima infrangersi contro i colpi che la vita le aveva dato giorno dopo giorno.
Doveva gettarsi, lo sentiva. Ma doveva essere sicura. Sicura di farla finita. Non sarebbe servito a niente buttarsi e ritrovarsi poi a soffrire ancora, e per giunta paralizzata poi.
Si sporse per constatare per l’ennesima volta l’altezza, e nel farlo una lacrima più coraggiosa delle altre si gettò in quel vuoto. Osservando quella lacrima, non le sembrò un gesto estremo, bensì il volo di un angelo che andava a perdersi in un cielo ancora sconosciuto.
Non riuscì a vedere bene dove cadde quello che in fondo era un piccolo frammento del suo animo. Lo vide solamente gettarsi in quel cielo buio, e perdersi in quell’infinito. Paradossalmente però le parve di udire l’infrangersi di quella goccia sulla strada. Sicuramente il rumore di quel suono era frutto della sua fantasia, ma l’immaginò come la melodia che accompagna le onde quando si infrangono contro gli scogli. Chissà se anch’esse provano dolore, pensò, e chissà se anche il mare ne prova.
Furono domande senza risposta. Erano quelle domande che uno si porge senza che se ne importi nulla della risposta. Vengono messe lì, quasi buttate a caso, un po’ per finta curiosità e un po perché è nella parte più insita e primitiva dell’uomo sapere e conoscere, ma è proprio nell’evoluzione dell’uomo stesso che questi ha imparato che non a tutte le domande segue una risposta, ed è proprio li che l’uomo capisce la sua impotenza verso il mondo che lo circonda.
L’uomo è un granello di sabbia che vive in un mondo immaginario dentro il granello della sabbia stessa. Questo è l’uomo.
Questo è ciò che credeva Monica, e sicuramente era come si sentiva.
Se avesse avuto il modo di volare fuori dal suo corpo, e vedersi magari anche con gli occhi di un semplice gabbiano, altro non avrebbe visto che una minuscola creatura negli artigli feroci del destino. lei, un essere insignificante.
Quanto avrebbe voluto volare via.
Durante l’adolescenza più di una volta si era immaginata nuotare sospesa tra il cielo e la terra, sentendosi libera e leggiadra. Aveva davvero sognato di poter volare soave accompagnata solamente dal vento che per incoraggiarla si sarebbe incuneato in vicoli sempre più stretti e angusti al fine di comporre una magnifica melodia solo per lei.
E intanto che riviveva di questi ricordi, non si era accorta minimamente che in quell’istante la sua fantasia era volata talmente tanto che il suo sguardo si era portato dal basso verso l’alto, ed ora seppur inconsapevole stava ammirando l’immensità buia che le si dipingeva sulle pupille. Il cielo che ora guardava, non differenziava troppo dal primo, difatti l’oscurità dell’asfalto rispecchiava il buio dell’universo, cosi, mentre le piccole luci delle case e dei lampioni venivano sostituiti da stelle di ogni tipo, l’orizzonte mescolava le ombre e le emozioni che queste provavano. Monica si rese conto di vivere nel mentre. Monica era lì, sospesa su quella piccola linea sottile che divideva la vita terrena da quella eterna.
Il suo sguardo seppur perso, fu preda dall’unica cosa che differenziava quei due mondi. Davanti a lei, maestosa, col suo fascino segreto e malinconico la guardava la luna.
A Monica quella visione la fece sentire ancora più piccola. La luna d’altro canto vezzeggiandosi forse un poco più del solito le si mostrava più grande, mentre con il suo sguardo enigmatico le diceva tutto e niente. Monica guardava quel disco luminoso nel cielo, ammirandolo con passione e paura. Non sapeva perché ne avesse, ma c’era, era li, insieme alle altre subdole emozioni che la tormentavano.
Continuò a fissarla imperterrita lasciando che questa penetrasse il suo cuore e abbracciasse il suo animo dall’interno. Sentì il suo sguardo pesante scorrerle lungo la braccia che ora, complici del vento, riflettevano il colore che quella enorme sfera irradiava nel cielo notturno. Monica non ci fece neanche caso, ma ammaliata continuò a legare il suo sguardo a quello della luna con un nodo talmente intenso che il tempo stesso ci mise diversi attimi per sciogliere.
Erano passate diverse mezz’ore quando ormai, Monica assuefatta da quella dolce sensazione di malinconia si decise anch’ella ad abbracciare quella Dea bianca che l’aspettava nel cielo. Così prima che le gambe si pietrificassero a causa della loro prolungata staticità, chiuse gli occhi ed andò a cercare il vuoto oltre la soglia.
Prima un piede, poi subito dopo l’altro, e poi …il vuoto, senti l’aria scivolarle veloce lungo la pelle ed un enorme gigantesco nulla andò a gonfiarle lo stomaco. Durò solamente un istante, ma a lei parve un eternità, o perlomeno è quello che si convinse. Al contrario di come aveva sempre creduto il respiro non le si fermò. Al contrario le aumentò incredibilmente, mentre lungo la parete delle palpebre sempre serrate in maniera categorica, la sua mente non le proiettò alcun passato, come forse aveva creduto.
Rimase abbastanza sbalordita di questo. Forse perché spesso nei film è questo quello che fanno credere. D’altronde, questa teoria non è sbagliata. Quando si giunge alla fine la vita ti fa un riassunto dei momenti più importanti e belli. ma che succede se nell’archivio non ci sono file, film o documenti che riportino i tuoi ricordi a dei momenti di gioia? che succede se sugli scaffali della memoria alla voce “Ricordi belli” non c’è neanche una misera fotografia ingiallita, o addirittura sbiadita che possa attestare un misero momento di felicità? Monica come sospesa su di un filo ebbe il tempo di riflettere su quell’enorme verità. Poteva mai essere che nella sua vita non era più presente neanche un briciolo di un dolce ricordo?
Impossibile.
Iniziò a scandagliare i suoi ricordi approfonditamente, ma tutto ciò che riuscì a vedere nella sua testa fu il nulla. Un enorme deserto dove il colore della sabbia rendeva monocromatico il pensiero vuoto dei suoi ricordi.
In realtà ciò che ora la sua mente le scriveva addosso erano solo nomi, persone, luoghi che forse, anzi quasi sicuramente appartenevano al suo passato. Così improvvisamente, proprio come quando una saetta fugge dal cielo scorrendo quelle parole si rese conto di una cosa. Non sono i ricordi in se per se ad essere belli, ma è il legame che si crea quando questi vengo legati indissolubilmente a persone che hanno lasciato qualcosa dentro di noi. Quel fulmine illuminò i suoi pensieri ed il buio nel quale giacevano, e con quella luce vide di nuovo quel deserto, ma guardando meglio infatti, notò che avvicinandosi a quella sabbia, i granelli si coloravano ognuno con una sfumatura differente.
Non fece in tempo però a cercare i nomi legati da quella rena che il freddo tonfo sordo del suolo la rapì facendola cadere in un oblio profondo.